Ineos Grenadiers, Egan Bernal: “Il chirurgo ha detto che potevo morire. I medici si arrabbiano quando dico che voglio tornare ad alti livelli, ma sono fiducioso”

Il colombiano racconta il suo dolore dopo l'incidente e le prospettive future

Egan Bernal racconta per la prima volta l’incidente che l’ha visto protagonista. Dopo lo scontro con un autobus in allenamento e le numerose fratture riportate, il colombiano ha pensato prima a cominciare bene il recupero, muovendo i primi passi e le prime pedalate e poi ha deciso di raccontare anche la sua versione dei fatti ai media del suo paese. Il corridore della Ineos Grenadiers ha spiegato di non ritenere responsabile l’autista del bus, né di ritenersi responsabile in prima persona e ha poi raccontato i primi momenti dopo l’incidente, segnati ovviamente da un fortissimo dolore.

“Era un normale allenamento con la squadra, alcuni con la bici normale, io con quella da crono – ha spiegato a La Semana – Dopo un po’ alcuni si sono fermati e io ho voluto continuare da solo, c’era una macchina che mi scortava. La posizione sulla bici da crono è particolare, devi essere più aerodinamico possibile. Per dirla in breve, bisogna avere la testa bassa e le braccia ravvicinate. Arrivato a Gacanchipa ho guardato avanti e non c’era nulla, ricordo che andavo a 58 all’ora, il vento era a favore e ho cominciato ad accelerare. Ho visto 62 km/h sul computerino e poi ho colpito il bus. A terra non riuscivo a respirare. Stavo per svenire, quando sono riuscito a riprendere fiato. Ho alzato la testa e ho visto la parte posteriore dell’autobus. Il meccanico che mi seguiva ha chiamato immediatamente il medico della squadra, che è arrivato velocemente e grazie a lui sono ancora in vita”.

Lo scalatore sudamericano ricorda in maniera abbastanza lucida tutto quello che gli è successo dopo l’incidente: “Il femore era rotto, sembrava voler uscire dalla pelle. Dopo aver tolto il mio piede dalla bici, il dottore mi ha stabilizzato la frattura sul posto.  Poi mi ha preso per il bacino e due persone, non so se fossero medici, l’hanno aiutato prendendo il mio piede e cominciando a tirare. Li supplicavo di smettere perché faceva male, ma mi hanno aiutato a non perdere altro sangue. Alla fine ho perso due litri e mezzo di sangue. […] Sono dovuto restare 15 minuti steso a terra, la gente si avvicinava, provavano a filmarmi, alcuni provavano a impedirlo, ricordo i miei compagni che urlavano ‘Non registrate, non registrate’. Quando è arrivata l’ambulanza ho chiesto degli antidolorifici, ma nemmeno loro ne avevano! Volevo svenire tanto dal dolore che sentivo. Il dolore era atroce, mai sentito nulla del genere in vita mia”.

Il classe ’97 ha poi ricordato le parole del chirurgo subito dopo l’operazione e ha poi cominciato a ragionare anche sulla sua carriera: “Il neurochirurgo mi ha detto: con un incidente del genere potevi morire, e avevi il 95% di possibilità di rimanere paraplegico. Ha aggiunto che aveva operato centinaia di ferite di tale grandezza alla colonna vertebrale e che solo due ne erano usciti bene. Io ero solo il secondo! Mi è andata bene. […] Alcuni rischi potevano essere evitati, ma non posso smettere di allenarmi su strada, altrimenti non vincerò più il Tour de France. Ormai voglio tornare ad alti livelli, ci credo, penso di poterlo fare e rapidamente. I medici si arrabbiano quando lo dico. In realtà non so se mi ci vorrà un anno o due, forse tre o sei mesi…ad ogni modo ho la sensazione che se non andassi in bici, non saprei cosa fare. Prima l’incidente stavo bene, avevo risolto i problemi alla schiena ed ero in anticipo sulla preparazione. Ero fiducioso per il mio grande obiettivo dell’anno, il Tour de France. Lo vincerò di nuovo? Non lo so, è già difficile quando tutto va bene, figuriamoci ora”.

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