#SpazioTalk, Vittoria Bussi: “All’inizio sentivo quasi dell’imbarazzo nell’essere una ciclista ‘diversa’, però poi ho detto ‘Questo è esattamente il lascito che voglio dare con il mio record'”

Vittoria Bussi ha compiuto sicuramente una grande impresa lo scorso ottobre. La ciclista romana, già detentrice del Record dell’Ora dal 2018 al 2021, si è ripresa quest’anno il primato grazie a una prestazione straordinaria, che le ha permesso di superare il record fissato nel 2022 da Ellen Van Dijk e, soprattutto, di abbattere la barriera dei 50 orari percorrendo 50,267 km, prima donna in assoluto a riuscirci. La 36enne ci ha svelato i retroscena di questa impresa nel corso dell’ultima puntata di #SpazioTalk, in un’intervista nella quale sono emersi diversi altri spunti interessanti, oltre che la personalità e l’unicità di questa campionessa, il cui percorso nel mondo del ciclismo è stato diverso rispetto a quello della maggior parte dei ciclisti.

Vuoi raccontare come è andata questa impresa? Anche perché non è il tuo primo record del mondo e hai lavorato tanti anni e hai cambiato anche qualcosa nell’approccio.
L’esperienza del primo record mi ha insegnato tantissimo. Uno dei punti fondamentali è stato trovare un compromesso in ogni cosa che ho fatto e poi soprattutto mi ha insegnato che esiste una cronologia per fare tutti i vari step. Quindi dal punto di vista organizzativo sapevo già quello che mi aspettava ed ero molto più organizzata, e ovviamente poi sono una persona diversa, sono passati cinque anni e quindi ho avuto modo anch’io di crescere anche a livello mentale per affrontare una prestazione del genere.

Ti rendi conto di essere forse un po’ un unicum nel mondo dello sport contemporaneo, che cerca tanto il metodo scientifico, ma basandosi spesso su quello che è stato fatto fino a quel momento, mentre tu invece sei partita ritestando e stravolgendo un po’ alcune credenze? E anche la tua storia personale è un pochino diversa da quella delle altre cicliste e dagli altri ciclisti: senti un po’ questa unicità ed è un po’ il tuo messaggio nel mondo del ciclismo e dello sport in generale?
Sì, esattamente, è uno dei messaggi più importanti, in cui credo di più. All’inizio sentivo quasi dell’imbarazzo nell’essere una ciclista “diversa”, però poi ho detto ‘Questo è esattamente il lascito che voglio dare con il mio record’. È un discorso di ‘Ok, sono unica e quindi vuol dire che porto qualcosa di innovativo, di diverso, che non è stato fatto prima’ e ho cominciato a puntare proprio su questo anche come messaggio di inclusività che si estende un pochino a tutto, al discorso di colore della pelle, dell’orientamento sessuale. A volte la diversità ha veramente un connotato troppo negativo e spesso c’è questa questione di vergogna. Questa storia vuole proprio dimostrare che invece è proprio l’unicità la cosa che ci fa poi essere speciali, quindi con un connotato positivo.

Parlando con una preparatrice di Van Dijk, aveva detto che lei, nei primissimi tempi in cui aveva pensato al record dell’ora, una delle prime cose che aveva fatto era quel test che si fa in galleria del vento, a testa bassa e guardando solo la linea nera continuando a pedalare, che in teoria dovrebbe durare un’ora ma in realtà, dopo 20 minuti, era spossata, si è fermata, ha vomitato e ha detto ‘Basta, io questo progetto lo lascio da parte’. Poi in realtà abbiamo visto che ci ha lavorato e ciò ha portato al record dell’ora: c’è stato un momento paragonabile per te nel corso di questo progetto?
Sì, spessissimo, quando prepari il record dell’ora sono tantissime le difficoltà e praticamente tutti i giorni arrivi a un certo punto che dici ‘Lascia stare’. Credo di ricordare tutti i giorni un momento in cui ho detto ‘Basta, è troppo’. E poi lì, quello che ti guida è invece proprio un drive che va oltre la prestazione sportiva, ma ti fa un po’ ambasciatore di valori e va poi a toccare la vita in generale, non solo lo sport.

Ero rimasto molto colpito da un’intervista in cui avevi parlato del concetto di solitudine che nasce un po’ anche da una tua esperienza personale, da un momento che hai vissuto con tuo padre. Secondo te, nel ciclismo di oggi e in generale, quanto si può lavorare sulla testa per avere risultati migliori nei momenti in cui un ciclista si trova da solo? Abbiamo visto interi Grand Tour essere decisi dal fatto che uno rimaneva da solo e poi non aveva più le energie oppure si staccava e crollava mentalmente. È un aspetto forse un po’ sottovalutato questo? Soprattutto ora che i distacchi si riducono sempre di più e quindi è sempre più raro trovarsi da soli, come succede invece nel record dell’ora. Quanto è importante e cosa c’è nella testa di un atleta del tuo livello quando si rimane da soli?
Sì, in realtà un po’ tutti noi facciamo fatica a restare da soli con noi stessi, perché poi i demoni più grandi li abbiamo proprio dentro di noi, quindi per me, ad esempio, il record dell’ora è stato proprio un modo per costringermi a star da sola con me stessa e crescere come persona. Poi, ho avuto esperienze con i mental coach ma ho preferito rivolgermi proprio a una psicologa che mi ha guidato nel mio percorso, perché comunque a volte ci schiacciano le aspettative che abbiamo su noi stessi, le aspettative degli altri, la paura di fallire, la paura dell’abbandono se falliamo. Quindi sono tutte tematiche che poi nello sport diventano ancora più grandi perché ti porta a scontrarti con questi limiti. Però secondo me c’è ancora un pochino di imbarazzo nel dire ‘Vado dallo psicologo’, e invece dovrebbe essere una cosa quasi naturale per tutti noi avere la possibilità di parlar con qualcuno che ci aiuta a gestire tutto questo.

Riguardo al movimento ciclistico italiano, spesso si dice che è un po’ in difficoltà per vari motivi in vari campi, poi in realtà, se vediamo, il record dell’ora è italiano sia al maschile che al femminile. Sei d’accordo sul fatto che è un po’ più in difficoltà e, se sì, come dovrebbe fare per cercare di uscirne e di migliorare e di tornare ai risultati che aveva un po’ di anni fa?
Domanda difficile, anche perché non sono un tecnico. Per quello che ho vissuto, sicuramente un problema grande è la mancanza di strutture. Poi guardiamo al presente e guardiamo pure a quello che deve arrivare, cioè i giovani: i genitori adesso non mandano i figli per strada perché abbiamo un problema che non vedo risolvibile nell’immediato, e quindi è urgentissimo avere delle strutture tipo velodromi, parchi, pump track, circuiti su strada che però fai in un sistema chiuso, in un parco sportivo. Secondo me, sarebbe proprio utile in investire in questo. Alla fine, ti cresce un talento ogni tot., quindi è come una rete da pesca, devi pescare più persone possibile per far uscire il talento, oltre che poi insegnare una cultura ciclistica alle generazioni nuove, insegnare ai ragazzi a muoversi in bicicletta. È fondamentale.

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