#SpazioTalk, Alberto Bettiol a ruota libera: “Da Nibali critica costruttiva. Liegi e Lombardia per capire quanto valgo. A Sanremo ci riprovo”

Alberto Bettiol ha una camera con vista sul futuro. L’ha prenotata 14 mesi fa e ora attende di arredarla. Se è vero che lo stile è gusto e cultura, al portacolori della EF Pro Cycling non sarà difficile creare un piccolo gioiello di design. Lo dimostra il modo in cui si è preso la prima corsa della carriera da professionista, un Giro delle Fiandre afferrato con la sfrontatezza dell’outsider e il piglio del gigante. Da lì riparte la sua caccia alla conquista di un orizzonte più ampio e inesplorato, come sono i suoi limiti. Ospite della dodicesima puntata di #SpazioTalk, il 26enne toscano ha affrontato a 360° i temi del suo passato, del presente e del futuro. Dalla necessità di ritrovare le sensazioni che gli hanno permesso di domare la Ronde, alla curiosità di capire fin dove possa osare il suo talento. Passando per consigli e critiche accettate di buon grado o rispedite al mittente, in attesa di riattaccarsi il numero sulla schiena e rispondere – finalmente sulla strada – alle aspettative che gli appassionati ripongono in lui.

Come hai vissuto questi ultimi tre mesi? Immagino che la difficoltà maggiore sia stata quella di starci con la testa, di allenarsi e lavorare nell’incertezza
Durante la quarantena, non avendo un’idea di programma e non sapendo quando si sarebbe tornato a correre, mi sono allenato facendo attività fisica, uscendo in bici divertendomi. In Svizzera siamo stati fortunati, noi che viviamo in Ticino siamo potuti uscire, pur con le dovute limitazioni. Non c’è stato il lockdown italiano ed è stata una fortuna, abbiamo preso il ciclismo come valvola di sfogo. Non c’erano gare né si prospettavano a breve termine, è stato duro stare lontano dalla mia famiglia ma per fortuna avevo la bici. Ho colto l’occasione per esplorare un po’ tutte le salite svizzere, perchè nei pochi giorni in cui mi ero allenato qui in passato ci si spostava di solito in Italia. Essendo chiuse le frontiere ci siamo allenati solo in Svizzera, direi che è stata dura ma poteva andare molto peggio.

Nei giorni scorsi ha fatto discutere la foto che ti ritrae in allenamento con tanto di mascherina. Nel commentarla hai detto che il decalogo dell’Associazione dei corridori è stato molto utile per prendere tutte le precauzioni del caso. Della linee guida che ha diramato l’UCI, invece, che idea ti sei fatto? Ne avete già parlato con la squadra?
Ne abbiamo già parlato con la squadra, il nostro dottore capo ci ha mandato tutti i suoi consigli. Ad esempio io sono tornato in Toscana nei giorni scorsi e gliel’ho dovuto dire, abbiamo dovuto compilare un questionario riguardante la quarantena o per dire se avessimo avuto un test positivo. La foto era semplicemente una provocazione per dire di non dimenticarsi le precauzioni quando si gira in bici, perché il virus non è ancora debellato. Ovviamente non mi alleno in mascherina perché sarebbe impossibile. Per quanto riguarda il decalogo dell’ACCPI abbiamo fatto una videochiamata con il presidente, Cristian Salvato, nella quale ci sono state spiegate norme, consigli e precauzioni che avevano stabilito insieme alla Federciclismo per ripartire in sicurezza. Credo che sia presente sul sito e accessibile non solo ai professionisti, per far sì che noi del mondo del pedale possiamo fare la nostra parte.

Restando sulla tua squadra, Jonathan Vaughters ha recentemente confermato che Education First resterà e che si stanno cercando nuovi sponsor. Voi corridori che tipo di rassicurazioni avete ricevuto?
Lui non ci ha detto che cercava altri sponsor, lo ha dichiarato in un’intervista. Di base ci ha sempre tranquillizzati e abbiamo ricevuto un paio di mail direttamente dai proprietari, dal CEO di EF. La polemica è nata dopo che L’Equipe ha scritto che EF rischiava di diventare una delle squadre che avrebbero chiuso la sponsorizzazione a fine anno, quindi Vaughters si è trovato a replicare a questa cosa. Noi all’interno non abbiamo mai ravvisato incertezze e dubbi, stiamo andando dritti per la nostra strada. Vaughters cerca altri sponsor perché, come tutte, l’azienda ha avuto un po’ di perdita di utili che si è ripercossa sulla squadra. Però siamo in una situazione normale, non è nelle intenzioni di Vaughters né di EF di abbandonare il ciclismo.

Tu hai dichiarato più volte di aver trovato in EF un ambiente ideale: rinnovare con loro rappresenta una priorità?
Sicuramente loro sono diventati una seconda famiglia. C’è un bel rapporto, mi trovo benissimo e non a caso quando li ho lasciati ci sono voluto ritornare. Mi hanno accolto più che volentieri, si è stabilito ormai un rapporto confidenziale anche con il mio staff e la squadra. Per me è un ambiente ideale per crescere anche in futuro. Alla fine, ovviamente, non siamo marito e moglie e nei rapporti lavorativi bisogna guardare agli interessi di entrambe le parti, non solo il mio. Mi auguro di continuare questa permanenza a lungo, staremo a vedere. Per ora ci sono tutti i presupposti affinché accada.

In futuro ti vedi in un progetto diverso, in cui tu possa avere un ruolo ancora più centrale?
Non lo so, io sono uno che per esprimersi al meglio deve sentirsi tranquillo. Sarà una sfida ritrovarsi con i gradi di capitano ben chiari da parte della mia squadra per le gare a venire. Adesso mi trovo bene nel ruolo che mi viene dato. Mi sento un corridore che deve migliorare mentalmente e fisicamente, non è detto che se ho vinto un Fiandre allora sia già ‘arrivato’. Mi sento in continua crescita, adesso non ci voglio pensare. Le sfide mi piacciono, sono un tipo competitivo e sono aperto a tutto.

Ne approfitto per chiederti anche un punto di vista sulla possibilità che era stata paventata di congelare la stagione sotto il punto di vista contrattuale: saresti stato favorevole?
Prolungare di un anno? Sarei il primo a firmare (ride, ndr), il contratto va benissimo. Però non saprei, ci sono fideiussioni bancarie e garanzie. A parole si è tutti bravi, ma quando si parla di soldi non è semplice. Non siamo la Formula 1, ma le squadre devono dare e avere garanzie. Non esiste un settore che non sia stato colpito dal Covid-19 e per prolungare di un anno servono i soldi. In questo momento in giro ce ne sono pochi. Io sarei d’accordo, ma bisogna vedere se è una cosa fattibile.

Invece, anche in ragione della necessità di salvaguardare buona parte delle gare in programma, secondo te è stato strutturato un buon calendario?
Non c’erano tante altre alternative, penso si sia il fatto possibile. Qualcuno ci doveva rimettere, perché comunque comprimere sei mesi di stagione in tre o due e mezzo significava per forza accavallare qualche corsa. RCS si lamenta ed è normale e giusto che sia così, però c’è da dire che era difficile fare diversamente. Va bene così, l’importante era ripartire indipendentemente da tutto.

Il tuo calendario: Strade Bianche, Milano-Sanremo, Plouay con possibilità di correre l’Europeo e poi le Classiche? O ci sono anche alternative? Si continua ad associare il tuo nome al Giro d’Italia…
Ancora dobbiamo definire i programmi insieme alla squadra. Finora, con molta cautela, abbiamo parlato di queste gare. Nel prossimo mese vedrò di definire meglio il tutto. La mia squadra ha tanti colombiani, bisogna vedere se loro possono rientrare o se si potranno fare degli stage. Ci sono tante cose in ballo, è ancora presto. Mi è arrivato all’orecchio che anche RCS voglia cambiare le date di Milano-Sanremo e Il Lombardia, è tutto in divenire. Di sicuro non credo di fare il Tour de France.

Da cosa deriva questa incertezza sulla partecipazione alle Classiche? Alle Fiandre hai un titolo da difendere…
La motivazione è che nel programma iniziale avevo il Giro d’Italia. Si parla già di ottobre ma siamo ancora a giugno, non si può ancora delineare. Ora potrei dire di tutto, ma non sarebbe una cosa realistica.

La tua stagione era iniziata bene con una vittoria a cronometro all’Étoile de Bessèges: ti stavi ritrovando anche a livello mentale, mettendoti un po’ meno pressione addosso?
Sì, avevo iniziato bene. Era stata una conferma mia di un giusto approccio mentale alle gare, che un po’ mi era mancato nella seconda metà della scorsa stagione. Ritrovare quella spensieratezza e far sì che mi possa scrollare di dosso quelle pressioni che, giustamente e inevitabilmente, vengono dall’esterno. Devo imparare a gestirle e conviverci, non posso rifiutarle. Questo è uno degli aspetti positivi o negativi che si hanno nel vincere il Giro delle Fiandre come prima gara in carriera. L’anno scorso è stata dura, l’ho detto tante volte che fisicamente stavo addirittura meglio al Delfinato o al Tour de France rispetto al Fiandre. Però non basta solo andare forte, c’è dietro tutto un lavoro mentale che prima non avevo perché non avevo questa pressione. Prima di vincere il Fiandre, se fallivo non se ne accorgeva nessuno, se facevo bene mi guardavano ma non ero il favorito. Adesso le aspettative si sono alzate e sono stato contento di aver vinto la prima gara dell’anno, perché volevo dare un segnale a me stesso e alla squadra di essere tornato considerando che, ad eccezione del Mondiale di Harrogate, ho sempre faticato ad esprimermi.

Una vittoria come quella dell’anno scorso ti aggiunge tante cose, dalla consapevolezza di essere al livello dei più forti e al rispetto che guadagni agli occhi degli avversari: senti, però, che ti abbia anche tolto qualcosa?
Mi ha tolto l’essere, tra virgolette, invisibile. Adesso se Bettiol arriva trentesimo lo vanno a guardare, mentre se prima arrivava venticinquesimo non lo guardavano neppure. Sono più esposto mediaticamente e devo anche ponderare le parole. Vengo rimproverato perché do troppa disponibilità, ma di carattere non sono uno cupo e che non parla con nessuno. Il Fiandre ti toglie questa bolla invisibile quando corri e puoi anche permetterti di sbagliare una gara o arrivarci in maniera non ottimale. Ti toglie anche una parte del tuo carattere, perché la tua vita è cambiata. Non puoi essere lo stesso di prima.

Torniamo al calendario: riparti da casa, una corsa in cui non hai mai ottenuto risultati eclatanti anche se l’anno scorso eri entrato nell’azione che l’ha decisa: può essere subito un buon test per capire a che punto si è o bisogna attendere un po’ di più? Matteo Trentin ha detto che farete due-tre mesi “full gas” e non ci sarà tempo per sprecare occasioni o programmare picchi
Sono d’accordo con lui su questo e quando ha detto che verranno battuti tanti record, perché arriveremo a fare le salite del Tour de France o del Giro d’Italia e le Classiche del Nord come se fossimo ad inizio stagione. Il gruppo è riposato sia mentalmente che fisicamente, saranno due mesi particolari. Se penso soltanto alla prima gara, che sarà le Strade Bianche il primo agosto…io so cosa sia la Val d’Orcia in quel periodo, farà un caldo allucinante e ci sarà polvere che non farà respirare. Il Giro d’Italia con le salite dolomitiche a ottobre, il Lombardia a fine mese. Sarà tutto all’ennesima potenza ed esagerato, credo sarà molto bello da vedere e ricco di spunti per dibattiti e per chi lo vedrà dalla televisione.

La Roubaix è l’unica classica che non hai ancora disputato da professionista: per come è collocata, può rappresentare una buona opportunità per iniziare a prenderle le misure?
Di sicuro, perché alla fine non l’ho mai fatta ed è una gara diversa. Bisognerà vedere se la correrò perché è in concomitanza con il Giro d’Italia. Sicuramente è una gara che voglio fare in carriera, prima o poi, perché prima di smettere vorrei correre tutte le classiche. Sono toscano, mi basta citare Ballerini e Tafi per capire di cosa stiamo parlando. Penso sia giusto che io vada là, da ciclista professionista mi piacerebbe farla.

Sei d’accordo con Oliver Naesen che ha parlato di un gruppo a due velocità, con corridori belgi e olandesi avvantaggiati dal fatto di essersi potuti allenare più degli altri nella prima fase della pandemia?
Secondo me non sarà così. Se si ripartisse domani o tra due settimane magari sì, ma abbiamo tutto giugno e luglio. Sui rulli bisogna anche stare attenti, perché ho visto cose che non stanno né in cielo né in terra. Ora va di moda fare 9 ore, ma non è che se uno ha fatto di più va automaticamente più forte. C’è tutto il tempo per recuperare, inoltre non è un’equazione certa.

Nibali in un’intervista recente ha dichiarato che hai una ‘testa che andrebbe presa a bastonate’: gli hai fatto qualcosa di particolare in allenamento o era un rimprovero bonario?
No, era un rimprovero bonario perché siamo andati spesso in bici e discutiamo insieme tutti i giorni. Lui si è accorto di avere, forse, esagerato, tant’è che la sera mi ha mandato un audio per chiedermi scusa. Mi ha spiegato cosa volesse dire, ma gli ho detto che avevo già capito la metafora e che ero consapevole che non volesse prendermi davvero a bastonate. Anche perché gliele potrei ridare con gli interessi (ride, ndr). Lui in questi due mesi mi ha visto tutti i giorni in allenamento, perché uscivamo sempre insieme con Ulissi. Siamo quelli geograficamente più vicini qui in Svizzera e abbiamo sempre cercato di non uscire in gruppi di più di tre. Ha visto che in salita vado forte, anche se non è la mia specialità, e che se faccio uno strappo lo stacco. Dice che se ho vinto soltanto due gare, qualcosa in corsa deve essere successo. Mi dice di essere più cattivo e che, siccome non lo sono abbastanza, andrei preso a bastonate. Si è sentito di scusarsi una volta visto il titolo, ma non c’era bisogno perché avevo capito il senso di quell’uscita.

Qual è il complimento che ti ha più fatto piacere dopo il Fiandre e la critica che ti ha maggiormente infastidito in questi anni?
Mi ritengo fortunato, non penso di essere mai stato criticato al punto da non dormirci la notte. L’unica cosa che mi ha dato un po’ fastidio, sia per l’età sia perché mi sembrava fuori luogo, è stato quando Evenepoel ha detto che l’anno dopo non mi avrebbero lasciato scattare. Prima di tutto lui non era presente in quella gara, poi sono andato via io e tutti erano al gancio e non ne avevano più. Non mi ha lasciato andare via nessuno, ma lui si è sentito di dire così. Una critica di quel genere da un ragazzino che ha un futuro luminosissimo, perché tutti siamo d’accordo e io sono il primo ad inchinarsi davanti a cotanta classe, non me l’aspettavo. Per quanto riguarda il complimento, invece, lo stesso Vincenzo ha speso tante belle parole su di me. Noi ci conoscevamo per Mastromarco e perché lui ha casa in Toscana e capitava che venisse in estate e ci allenassimo insieme. Ora siamo stati un mese e mezzo-due ad uscire sempre insieme e mi ha visto andare forte in cose in cui non mi aveva ancora conosciuto. In corsa fa programmi diversi dai miei, ma vis-à-vis non ci eravamo mai scontrati. Mi ha fatto i complimenti e li ha fatti anche pubblicamente.

Tu hai capito quali siano i tuoi limiti? Da un anno a questa parte ti si può inserire tranquillamente nel borsino dei favoriti di qualunque corsa
Ancora non lo so, però posso dire dove non andrò di sicuro: non vincerò mai un Grande Giro o non vincerò mai sul Mont Ventoux. A cronometro mi difendo e di sicuro sarà una cosa su cui lavorerò. Se ho vinto il Fiandre – perché no? – potrei vincere un’Amstel o Harelbeke. Alla Sanremo sono scattato lì (sul Poggio, ndr), non ho lo spunto veloce degli altri ma posso difendermi. La sfida più grande saranno una Liegi o Il Lombardia, che sono gare molto più al limite per me. Soprattutto la Doyenne è una gara in cui le salite sono più lunghe e io non sono uno scalatore puro. Non ho ancora 27 anni, ho tempo per fare tutto e mi sento ancora in crescita e non arrivato fisicamente. Non voglio pormi nessun obiettivo. Se dovessi cercarmi una gara più bella di quello che ho vinto, o uno stimolo in più, non lo troverei. Più bello del Fiandre ci sono forse Mondiali e Olimpiadi, ma non è certo questo lo stimolo che devo andare a cercare. Quello che devo andare a cercarmi è essere competitivo in ogni gara a cui partecipi, che sia Bessèges dove ho vinto solo una tappa su quattro a dimostrazione che non esistono gare facili, o una classica. Tutte le gare servono per crescere e fare esperienza. Per vincere una gara come il Fiandre serve commettere tante volte errori. Io li ho commessi ad Harelbeke, alla Milano-Sanremo, alla Tirreno-Adriatico, nel 2016 a Montreal scattando presto e così via. Mi auguro di commetterne anche altri, perché come si dice: o si vince o si impara. Non si perde mai. Però spero di commettere errori ma essere lì davanti, a giocarmi il più possibile le vittorie.

“O si vince o si impara” citando poco prima la Milano-Sanremo: significa che hai capito dove piazzare la zampata quest’anno?
Di sicuro andrò a vedere il Poggio, perché l’anno scorso non l’ho fatto e ho sbagliato.

Tu hai vissuto il famoso “clic” della carriera, passando da outsider a papabile favorito. Per anni gli italiani hanno stentato nelle Classiche, ora la sensazione è che ci sia tanto talento ma che si raccolga ancora poco. Si tratta solo di saper cogliere l’occasione o si viene anche visti in maniera diversa?
Sono annate, c’era l’era in cui gli italiani dominavano e ora tocca ai colombiani nei Grandi Giri mentre nelle Classiche vanno sempre forte belgi, olandesi e francesi come Alaphilippe. Io dico che noi italiani siamo un bel gruppo, ma io personalmente non saprei dire se sia questione di fortuna o di dote e numeri. Non lo so se per vincere serva qualcosa in più. Dico che per impormi al Fiandre ho lavorato tantissimo. Madre Natura mi ha dato delle doti ma non mi ritengo un campione, mi sento molto umano. Sento di dover lavorare per vincere le gare. Il fenomeno è quello che si sveglia la mattina e con due colpi di pedale è già là davanti, oppure un Evenepoel che viene dal calcio e in due anni diventa uno dei più forti al mondo. Io non penso di essere a quei livelli, e con tutto il rispetto non penso lo siano Colbrelli, Moscon, Trentin o altri italiani che si giocano le classiche. Però penso che anche l’Italia piano piano si stia rifacendo, mi viene in mente il Mondiale di Harrogate che è stato molto simile a una classica.

Quanti fenomeni vedi in giro?
Per le mie gare Van der Poel su tutti, prima ancora di Evenepoel. Perché sa guidare la bici e ha dimostrato di saper andare forte anche nelle gare lunghe. Asgreen non è giovanissimo ma è un uomo sul quale la Deceuninck-Quick Step può fare affidamento. Si prospettano delle belle annate, ma di base devo partire con l’idea che il Fiandre l’ho già vinto e devono essere loro a dimostrare. Andrò là per provare a difenderlo, ma senza lo stress. Rifiuto il pensiero di tanti che dicono che se Van der Poel non avesse forato mi avrebbe staccato, perché non ne sono molto convinto.

Dopo il trionfo al Fiandre hai espresso un concetto molto particolare, quello della “gelosia della vittoria”
Era talmente bella, grande e monumentale in tutti i sensi, che la vittoria del Fiandre è diventata per forza di cose anche della gente e dell’appassionato di ciclismo. Tutti hanno visto quello che ho fatto. Era un’accezione bella. Sono ripartito dal Belgio alle 6 di mattina del lunedì, alle 9 ero a Firenze e mi hanno portato subito in Gazzetta dove fui ospite di Urbano Cairo. Quando sono tornato a casa ho dormito 12 ore e quando mi sono svegliato, martedì mattina, la prima cosa che mi sono sentito di fare è stata proprio andare in bici. Volevo andare in bici da vincitore del Fiandre per scaricare tutta l’adrenalina, ma non sono riuscito a fare un’ora senza mai fermarmi perché la gente mi vedeva e mi ha fatto capire che non era solo una vittoria mia, ma di tutti.

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