Doping, il creatore del passaporto biologico Neil Robinson: “Le trasfusioni sono tornate. Anche nel doping ci sono le mode”

Le trasfusioni stanno tornando. Mentre l’agenzia internazionale antidoping prepara nuovi metodi per individuare chi fa uso di doping, i truffatori hanno deciso di tornare all’antico. Questo almeno è il timore di Neil Robinson, creatore del passaporto biologico e attuale responsabile del dipartimento scientifico e medico dell’International Testing Agency (ITA), nata nel 2018 dopo il caso del doping di stato russo. Il cinquantenne, infatti, ha spiegato che con il calare dell’attenzione delle agenzie antidoping su questo tipo di doping, ci sono stati atleti che hanno provato ad approfittarne in occasione dei Giochi Olimpici di Tokyo.

“Il doping è come le mini-gonne e i pantaloni a zampa di elefante: ci sono delle mode – ha esordito a Ouest France – Le varie pratiche scompaiono e poi tornano. Un esempio personale: nel 2003, al ritorno da una competizione sportiva, ho detto al mio capo ‘dobbiamo mettere in piedi un progetto contro le trasfusioni’. […] Un anno più tardi, il metodo era pronto e ha avuto un certo successo. I truffatori però si sono adattati e hanno smesso con le trasfusioni per un po’ di anni, era il 2004. Cosa abbiamo riscontrato alle ultime Olimpiadi di Tokyo diciassette anni più tardi? Il doping tramite trasfusioni è tornato,  è solo una questione di mode. Perché gli atleti rischiano? Non mettiamo loro abbastanza pressione, in Europa ci sono solo due laboratori che rilevano la trasfusione, quindi i costi sono elevati. La mancanza di pressione è dovuta a questioni di budget. Nel 2004 c’erano molte trasfusioni e quindi più laboratori, ma poi hanno smesso di doparsi con questo metodo e i laboratori sono diminuiti. Nell’ambiente si sa e per questo gli atleti ora fanno di nuovo trasfusioni”.

Infine, alla domanda su come poter risolvere, almeno parzialmente, questa mancanza di pressione sui corridori diminuendo i costi, Robinson ha fatto l’esempio del covid: “Ci sono stati tentativi molto interessanti negli ultimi tempi, soprattutto con il covid. Penso ai test virtuali: si invia un test a casa dell’atleta, poi si applica il protocollo registrando tutto in videoconferenza. L’atleta poi sigilla il campione, lo mette nel kit e ce lo invia. In caso di dubbi si può sempre fare un test del DNA. Questo approccio apre altre prospettive, soprattutto per quegli atleti che si allenano o vivono in posti remoti. Da un punto di vista economico, la riduzione dei costi sarebbe importante e permetterebbe di investire in altri domini”.

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