Lance Armstrong: “L’EPO mi ha cambiato come atleta e come persona”. Ma nel documentario manca qualcosa…

Lance Armstrong racconta la prima parte della sua verità. L’atteso documentario di ESPN è cominciato ad andare in onda (la seconda e ultima puntata è attesa per lunedì prossimo), ma non ci sono ancora le grandi rivelazioni che probabilmente in molti si aspettavano. Sostanzialmente al momento quanto era stato racchiuso nelle anticipazioni del trailer e dell’operazione marketing precedente all’uscita “on air” è stato confermato e non c’è molto di più. Lance Armstrong si è dopato per tutta la sua carriera, iniziando sin dal primo anno, vivendo poi un crescendo di arroganza e potere lungo quello che è stato in ogni caso e da più punti di vista uno straordinario viaggio (non sempre in senso positivo e non solo dalla prospettiva sportiva). Lance Armstrong correva in un periodo particolare del nostro sport, da molti considerato il più buio e ne è considerato il simbolo. Tutti, malgrado il buco nel palmarès, ricordiamo il suo dominio incontrastato al Tour de France, evento faro della stagione a cui ha dato ulteriore visibilità, e il suo modo di porsi da padrone. Quegli atteggiamenti in corsa e fuori che solo ad anni di distanza, dopo aver dovuto calare la maschera nel 2013 da Oprah Winfrey, ha iniziato ad auto-condannare.

Un pentimento difficilmente interpretabile come sincero che ha ripetuto ancora nei confronti di Emma O’Riley, sua ex massaggiatrice, e Filippo Simeoni, colpevole di aver parlato e raccontato quanto succedeva in gruppo. Argomenti che in passato aveva già affrontato, probabilmente più per la consapevolezza dell’errore commesso che per reale pentimento del comportamento avuto. Duro ancora invece sugli ex compagni Tyler Hamilton e Floyd Landis, che con le loro accuse hanno contribuito in maniera decisiva a far cadere il suo castello di carta, Armstrong si mostra ancora una volta vicino a Jan Ullrich, che considera non solo il suo più grande rivale (“è per battere lui che mi svegliavo la mattina presto”), ma anche un amico. Il texano sembra quasi commosso quando parla del tedesco, con il quale ha condiviso grandi battaglie e un destino simile nella disgrazia, al contrario di molti atleti del loro stesso periodo.

“In Italia celebrano Ivan Basso, ne fanno un idolo, lo fanno lavorare, lo invitano alle corse, lo fanno andare in TV, ma non è diverso da noi – commenta, ad esempio, facendo esempi simili su altri corridori come Erik Zabel, Rolf Aldag e George Hincapie nelle altre nazioni – Discreditano e distruggono Marco Pantani, lo hanno cacciato dallo sport ed è morto […]Discreditano e distruggono e rovinano la vita di Jan, perché? […] Si bevono le sue str***te (riferito a Hincapie, ndr) mentre distruggono e discreditano me…”

Per quanto riguarda doping ed EPO, se qualcuno si aspettava qualche tipo di rivelazione di metodi, almeno per il momento rimane deluso. Armstrong rivela solo qualche tempistica e approccio personale. “Si è cominciato a parlare di EPO nel 1993 – spiega – Ma le persone ne avevano paura. Si pensava che si potesse morirne. Poi ho vinto i Mondiali nel 1993, vestendo per tutto il 1994 la maglia iridata e facendomi battere per tutto il tempo. Prendevamo già un doping più leggero comme il cortisone, o le altre cose che c’erano, ma l’EPO era tutto un altro livello. I benefici sulle prestazioni erano così elevati che era come passare da una benzina normale alla super, quindi abbiamo dovuto prendere una decisione”.

Se, secondo quanto racconta Armstrong, alla Motorola nel periodo 1994-1995 rifiutarono di assumerlo, la decisione cambiò vedendo che l’EPO si stava diffondendo e ormai “era ovunque”. A raccontare il periodo e la frustrazione è l’ex compagno Jonathan Vaughters (ora team manager della EF Pro Cycling, considerato tra i grandi combattenti del doping), che racconta “la rabbia pronta ad esplodere” di Amrstrong, che inizialmente avrebbe voluto che “questi str*** fossero presi e cacciati”. Ma poi arrivò il rapporto con Michele Ferrari (“abbiamo cominciato a lavorare assieme nell’inverno del 1996”) e tutto cambiò. Anche a livello mentale. “L’EPO mi ha cambiato come atleta e come persona“, ammette al riguardo, sottolineando di essere diventato “un altro uomo”.

Poi arrivò il cancro e la lotta per la sopravvivenza, ma il ritorno alle corse fu segnato dal ritorno al doping. E assumere EPO non fu una decisione difficile: “So che questa risposta non sarà molto popolare, ma per molti versi l’EPO è una sostanza sicura, sempre se usata con moderazione, in quantità limitate e sotto la supervisione di un medico professionista. Ci sono molte cose più pericolose che puoi metterti in corpo“. Possono essere state queste a provocargli il cancro? Già nelle anticipazioni sapevamo che Armstrong al riguardo esprime dubbi, chissà quanto a favor di telecamera: “L’unica volta in vita mia in cui ho usato ormoni della crescita è stato nel 1996, quindi penso che se fa crescere le cose buone, non potrebbe aver senso se avesse fatto crescere anche qualcosa di brutto che c’era?”.

L’interrogativo sicuramente resta e resterà a lungo, come per tutti coloro che hanno assunto determinate sostanze e hanno poi dovuto lottare (a volte uscendone sconfitti) con questa terribile malattia. Ma la sua lotta al tumore e quanto di buono ha fatto in questo campo non possono far dimenticare il resto, così come la sua infanzia difficile, raccontata in alcuni momenti, può essere spiegazione a certi atteggiamenti, ma non giustificazione. Oltretutto, continua a restare tanto non detto e se Armstrong vuole davvero essere visto con occhi diversi è da quello che deve partire per avere qualche speranza di farcela.

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