#SpazioTalk, Leonardo Bonifazio si ritira per problemi cardiaci: “Non me la sento. Evenepoel? Fortissimo, ma non sa stare in bici”
Leonardo Bonifazio annuncia il suo addio al ciclismo professionistico. Il ligure, ad appena 30 anni, non proseguirà la sua carriera, sebbene ne avesse la possibilità, almeno sulla carta. Con la Total Energies, squadra che lo ha lanciato nel professionismo nel 2020, aveva infatti un contratto che sarebbe scaduto alla fine del 2022, e gli avrebbe permesso di partecipare ad altre corse. Alcuni problemi cardiaci, tuttavia, lo hanno convinto ad abbandonare il gruppo e cambiare vita. Un vero peccato per un corridore considerato una promessa e, forse, tagliato fuori senza concedergli tutte le opportunità che avrebbe meritato. Il classe ’91 ha concesso un’intervista esclusiva alla redazione di SpazioCiclismo, a cui ha confermato la propria decisione. Un estratto delle sue parole è disponibile all’interno dell’ultima puntata di SpazioTalk, il podcast settimanale della redazione.
Non hai ancora annunciato la tua decisione sul tuo futuro nel mondo del ciclismo. Che piani hai?
Non l’ho fatto e non lo farò. Non mi interessa. Non sono uno che guarda tanto internet o i social. Con il ciclismo ho smesso. Ho avuto un po’ di problemi fisici, anche seri, a livello di cuore. Non me la sono più sentita di continuare, anche se avrei avuto un altro di contratto con la TotalEnergies.
Si parlava di problemi cardiaci dopo aver contratto il coronavirus.
Non è esattamente così. È stata una serie di cose. A gennaio 2021 ho preso il virus e sono stato a casa 20 giorni senza allenarmi, poi avevo delle corse a fine mese e ho ripreso a tutta. È stata una cosa sbagliatissima. Ho preso anche freddo. Una concatenazione di eventi mi ha portato a una serie di problemi. Bisogna sempre stare attenti. Mi sono stati diagnosticati problemi cardiaci, che ho dovuto far controllare. Non è niente di grave, ma il ciclismo è uno sport che non puoi fare senza dare tutto. Già è difficile quando sei al 100%.
Ora quindi che progetti hai per la tua vita?
Ora lavoro in un’azienda, una multinazionale che fa prodotti per il caffè. Per uno sportivo è difficile stare fermo. Per i progetti futuri si vedrà.
Ma vorresti restare nel ciclismo?
Dove abito io è difficile. Il ciclismo giovanile, in Liguria, è finito. Non ci sono sbocchi. La situazione è un po’ di stallo. Voglio prima capire cosa fare in maniera definitiva, in futuro.
Tu e tuo fratello, insieme a Oliviero Troia, siete stati e siete i maggiori interpreti del movimento ciclistico ligure.
Sì, diciamo che io non ho avuto molta fortuna. Ho fatto molta fatica a passare, nonostante i risultati. Anche questi due anni sono stati un disastro. Nel primo c’è stata la pandemia, poi ho avuto problemi fisici. Per quest’anno non me la sono sentita di continuare.
Hai rimpianti per com’è andata?
Certo. Sono sicuro che andavo forte. Già nello stage con la Nippo avevo ottenuto risultati importanti, che a volte non avevano nemmeno i professionisti. Avessi avuto il tempo di fare le cose fatte bene, con la giusta preparazione e senza problemi, sono sicuro che avrei ottenuto buoni risultati, magari anche vincere.
Come mai non eri passato professionista nel 2019, dopo lo stage in Nippo?
Perché il ciclismo italiano è così. A 26 anni sei vecchio. Avevo smesso, poi ho ripreso a 25 anni da dilettante. Ho vinto corse anche importanti da dilettante. Poi sono finito in Francia, avevo deciso di smettere ma ho avuto l’opportunità dello stage in Nippo. In seguito mi hanno dato una chance alla Sangemini. In Sangemini è stato un anno disastroso, non era l’ambiente giusto per me, per la gestione e le corse che ho fatto. Da lì mi è passata la voglia di allenarmi. Poi sono passato in TotalEnergies, tramite mio fratello, e lì la motivazione è tornata. Però nella mia carriera ho sempre dovuto inseguire, ho fatto tanta fatica ma ho ottenuto risultati. Quindi sì, ho rimpianti.
Cosa non funziona nel ciclismo in Italia?
Non c’è una logica in quello che fanno. Uno juniores può già passare professionista. Evenepoel è fortissimo, ma non sa stare in bicicletta. Cade ogni tre per due. Passare troppo presto, avendo corridori troppo giovani, non fa bene al ciclismo. Ballan è passato professionista a 28 anni e ha vinto un mondiale. Non ha senso quello che succede in Italia. Parlo anche per l’esperienza di mio fratello, passato professionista a 20 anni. Ha avuto momenti davvero difficili all’inizio, ha anche pensato di mollare. Secondo me nel ciclismo è tutto sbagliato, i giovani sono troppo caricati di allenamenti. È un mondo così, secondo me ingiusto. Ci vogliono delle tappe, bisogna rispettare anche un corridore per l’età che ha.
E poi c’è anche la caccia all’Evenepoel, quando di Evenepoel ne nasce uno ogni decina di anni, e forse di più.
In Italia non ci sono le strutture per avere un atleta così. Poi in Belgio un dilettante corre quasi con i professionisti, hanno un determinato percorso per passare in grandi squadre. In Italia invece corrono nei dilettanti, passano nei professionisti e poi non combinano niente. Magari corrono una corsa internazionale coi dilettanti, ma finisce lì. Non c’è un atleta che a 20 anni va a fare una corsa a tappe con i professionisti. Ti cambia per il futuro. In Italia fai solo corse per dilettanti, solo corsette.
Ma quindi come si può rilanciare il ciclismo italiano?
Prima di tutto, in Italia non ci sono soldi. Le squadre stanno cercando fondi. Quello che fanno è abbastanza inutile. Già in Italia non ci sono corse, poi ridursi a correre solo tra i dilettanti non va bene. Non ci sono strutture adeguate. E mandare un giovane a una corsa come il Pantani, per vedere che si stacca dal gruppo dopo 70 o 100 km, non ha neanche senso. Manca un percorso per i giovani.
È un po’ il problema di cui mi parlavi della tua esperienza in Sangemini.
In realtà, magari ci fossero più squadre come la Sangemini. Ce ne sono poche così. Ti permette comunque di fare corse, anche se tutte dell’est Europa. Sono corse a tappe di livello, con anche dei professionisti. Lì hai modo di imparare. Invece stando fisso in Italia fai fatica. Anche con la Colpack sono andato a correre all’estero e c’era un po’ di differenza tra chi correva al mio livello e i professionisti.
Che consiglio daresti a un giovane che si avvicina al ciclismo?
Di cambiare sport. Se vuole fare dei soldi, o vincere o cambiare sport, andare a lavorare. Il ciclismo d’oggi in Italia non ha molti sbocchi. Passano due o tre corridori all’anno. Per uno juniores e per un dilettante di medio livello non c’è spazio. Quando non sono passato professionista con la Colpack ho vinto otto corse in una mia stagione, qualche mio compagno di squadra due, ed è passato. Non ha fatto niente tra i professionisti. In questo momento è molto difficile dare un consiglio ottimista. Divertitevi finché potete, ma se non sei un campione non può diventare un lavoro.
Però qualcuno ce l’ha fatta. Bisogna avere un motore eccezionale.
Sì, certo. Posso fare l’esempio di Ganna. Si sapeva che aveva i numeri, che sarebbe diventato professionista. Io quell’anno avevo vinto otto corse e magari sarei potuto essere qualcuno, ma mai al suo livello. Non avevo i numeri che ha lui. Uno che aveva ancora meno di me, figurati. Adesso no. O sei Ganna o non c’è possibilità. Ganna chiaramente è un esempio, per dire che serve un gran motore già da junior.
E anche lui ha fatto fatica all’inizio, tra i professionisti.
In Uae ha avuto parecchie difficoltà. Forse non era seguito, o magari non era abbastanza maturo per passare. Avrebbe potuto fare un anno in più da dilettante. Come mio fratello, ha avuto un attimo di difficoltà. Poi è stato seguito meglio e la cosa è cambiata.
Però la tua esperienza non è stata così negativa.
In questi anni in cui ho corso mi sono sempre divertito. Sono contento di com’è andata, anche se è finita male. È stata un’esperienza.
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